Il cielo nuvoloso rifletteva e diffondeva gli ultimi raggi di sole della giornata sull’immensa pianura coltivata a grano. L’aria era tiepida e non volava un filo di vento.
-Io arrivo più in alto di tutti! – esclamò Dennis. – Questa volta, no! – rispose con fermezza Wendy. Tutti i pomeriggi verso il tramonto il gruppetto di amici si recava in questa parte del mondo isolata da tutti dove era loro permesso giocare, muoversi, stare insieme e urlare senza essere rimproverati da nessuno. I cinque ragazzini erano soliti fare gare di velocità. Vinceva chi riusciva a spingere l’amico più in alto degli altri. Ma la loro era una competizione sportiva senza rivalità perché speravano sempre nella rivincita del giorno dopo. C’era la gioia dello stare insieme, di trascorrere un po’ di tempo in compagnia e di gareggiare senza cercare la vittoria finale. Per i ragazzi il campo rappresentava una scuola di vita.
Dennis era il più grande, aveva quindici anni, era longilineo, aveva i capelli castani con riflessi dorati, sguardo furbo e vivace. Era abile nel realizzare semplici giochi con le spighe appena colte. Gli steli venivano intrecciati e così si confezionavano piccoli ma graziosi cestini e anche altri oggetti come buffi personaggi che animavano il campo. Un gioco molto simpatico che piaceva a tutti era infilarsi una spiga nella manica della maglia e con il movimento delle braccia farla risalire lungo la manica. Numerosi erano i giochi popolari che animavano le loro giornate trascorse all’aperto. Anche a Wendy piaceva molto condividere con i suoi amici ore in libertà. Tredici anni, alta, bruna, energica, spiritosa; lunghe gambe sempre in movimento, naso all’insù, occhi chiari tendenti al verde nelle giornate di sole, luminosi e sempre all’erta. Una sua caratteristica erano i lunghi capelli color carota, sempre raccolti in una coda che liberava appena poteva per sentirsi più libera da costrizioni. Tra lei e Dennis era nata una tenera intesa, ma mai dichiarata apertamente, solo un gioco di sguardi e risate condivise. Poi c’era Esther, la più piccola del gruppo. Sedeva sempre nell’altalena più bassa. Preferiva indossare vestiti dalle tonalità vivaci che spiccavano tra il giallo del frumento. Solare e altruista aveva una grande passione per la natura. Giocare all’aria aperta era una meraviglia per lei. Infine c’erano Paul e Linda, due fratelli gemelli di undici anni, molto uniti e complici tra loro e con il resto del gruppo. Lui alto e ben curato con capelli morbidi e setosi, era soprannominato dagli amici il Principino per il suo temperamento calmo e per il suo aspetto elegante. Linda invece era una piccola donna coraggiosa, pronta a scoprire nuovi luoghi, propositiva e curiosa. In questa radura passavano tutta la stagione estiva tra risate e puro divertimento. Il gioco dell’altalena rimaneva però il passatempo più entusiasmante perché permetteva, non solo di incontrarsi e di godere della libertà di stare all’aria aperta, ma aggiungeva quella strana sensazione quasi di volare e di dominare lo spazio circostante.
Senza quel twist non sarebbe iniziata nemmeno la demenza. Nessuno riuscirà a convincermi del contrario. Mamma continua a sostenere che non è così, che lei se n’era accorta già da mesi – chiaro: tira acqua al suo mulino. Gli avesse dato un attimo di tregua, suo marito non sarebbe ridotto al guscio che è. Invece no: al martedì e al sabato, si fosse spaccata in due la terra, bisognava vestirsi bene e andare al circolo.
Non faceva male a una mosca, papà. Dopo la pensione tutto quello che chiedeva alla vita era di starsene tranquillo all’ombra di un faggio sulla riva del Saliz con la sua lenza, ad aspettare le piccole carpe e i barbi, e di farsi una birra di tanto in tanto con gli ex colleghi dell’anagrafe. Qualche volta era più di una, d’accordo, ma questo non faceva di lui un “ridicolo ubriacone cencioso” come continuava ad apostrofarlo nostra madre. Eppure, evidentemente tanto bastava per fargli scontare il contrappasso dei rituali da gente per bene, la messa, gli ospiti a cena e le serate danzanti. Quelle del martedì e del sabato, per intenderci. Che poi lui ci andava pure di buon grado, fosse anche solo per non sentirla blaterare, e in ogni caso le sue birre poteva farsele anche lì – un po’ di nascosto, si capisce. Lungo il tragitto si fermavano sempre da me a portarmi il pescato del giorno; papà ogni volta mi raccomandava il giusto modo di incidere il ventre dell’animale e mamma come cucinarlo.
Al circolo si erano sempre ballati balli tradizionali, con la polka a dominare la scena; ogni tanto David, il gestore, che era anche un musicofilo sempre informato sulle novità, azzardava un po’ di rock leggero o di swing, e gli anziani avventori sembravano gradire le variazioni. Fino a quando, nel nuovo decennio, da oltreoceano arrivò il twist: per due incontri consecutivi, mi aveva raccontato mamma, era stato ospite della balera un insegnante di danza che aveva illustrato agli habitué come far finta di passarsi un asciugamano dietro il fondoschiena, da destra a sinistra e viceversa, e nel frattempo spegnere immaginarie sigarette con le punte dei piedi. Ecco: un movimento del genere dovrebbe essere bandito, specie dai sessant’anni in su. Non sai mai come può torcersi il ginocchio, ancor più se in mezzo ad altri piedi che devi stare attento a non pestare, o su un pavimento sporco. Che fu proprio quello che successe a papà quella sera: mentre si dimenava in modo maldestro sulle note di Chubby Checker, con la suola della sua scarpa aveva pestato un chewing gum – quel dannato ballo non era l’unica americanata importata da David – e nel tentativo di staccarselo senza fermarsi o perdere il ritmo il piede gli era rimasto incollato al linoleum mentre la caviglia ruotava di novanta gradi. Il risultato fu un orrore degno del peggior cinema.
A poco erano valsi i mesi di riabilitazione: papà era passato direttamente dal letto della clinica al divano di casa e lì aveva trovato il suo nuovo, triste mondo. Avevamo provato con qualche rivista o romanzo, ma da pessimo lettore qual era non andava mai oltre le prime pagine; così coi risparmi io e mio fratello Toni gli avevamo acquistato un televisore. Fu un bene o un male? Giudicate voi. Sulle prime papà seguiva con interesse i notiziari e qualche partita di tennis, e li commentava anche coi vicini e i colleghi che passavano a trovarlo. Con lo stesso interesse, per un pezzo aveva continuato a chieder loro conto delle piene del Saliz, della quantità di pesce, del clima che avremmo avuto in stagione.
Da qualche tempo però è approdato definitivamente ai quiz. Ha una discreta cultura e tiene la mente allenata, è un appuntamento fisso che dà un po’ di senso alle sue giornate piatte e identiche fra loro; tutto regolare insomma, se non fosse che ora risponde alla tv. Nel senso letterale dell’espressione: dà le risposte come se si rivolgesse proprio al conduttore, Bob Warren, e come se lui potesse sentirlo; si altera pure quando ogni sua risposta è esatta ma il montepremi non gli arriva. Tutti i giorni, quando passo a casa loro, lo sorreggo per accompagnarlo fino al vialetto: apre la cassetta
delle lettere, la trova vuota, scuote la testa, guarda giusto un momento a destra e sinistra osservando le auto e i passanti e vuole tornarsene subito al suo divano. Io ci provo sempre a chiedergli di fare due passi, di andare al bar per un caffè, a volte addirittura fingo necessità della sua presenza per una commissione, ma non ha interesse per niente e nessuno. La caviglia ormai è guarita da un pezzo, lui no.
Ieri Toni è rientrato da un viaggio in Giappone. È stato via cinque settimane e non ha la minima idea; mamma non ha voluto dirgli niente per telefono, per non farlo preoccupare. Come se avesse otto anni. Ha portato un regalo, e adesso è qui con l’incarto fra le mani ad abbracciare nostra madre mentre io sto sulla soglia fra la cucina (dove sono loro) e il soggiorno (dov’è papà).
– Scartalo, dai! È per te.
Papà si ritrova in mano un pesce di terracotta, dipinto di arancione e azzurro. – È una carpa koi. Gli danno questi nomi esotici ma è identica a quelle che peschi tu. Papà resta in silenzio. Non decifro se sia triste o assorto in altri pensieri lontani.
– A proposito, il “Terrore dei fiumi” è tornato a far stragi, sì? –, ridacchia Toni con quell’appellativo che nessuno usava più da dieci anni.
Ancora silenzio. Guardo papà, il pesce finto che ha fra le mani, mio fratello e di nuovo papà, e mi sorprendo a sperare che per miracolo rida, parli del Saliz, esprima il desiderio di tornarci. Che reagisca in qualche modo.
– Pesa. Non dovevi caricarti di tutto questo peso, con un viaggio così lungo.
– Non ci sono mica andato a piedi, papà! Scommetto che tu hai camminato più di me in questo mese. Hai esplorato qualche luogo nuovo?
Cerco di fare segno a Toni di tagliar corto e non insistere su quel tasto, ma non mi vede. Guarda papà che prova ad alzarsi, lo aiuta ed eccolo lì in piedi, con lo sguardo alto e fiero puntato davanti a sé. Di nuovo mi aspetto un piccolo miracolo; immagino la sua voce dire “Vado da Tomàs, vedo se gli è rimasto qualche verme”.
Invece poggia la carpa sopra al televisore, lo accende, fa due passi traballanti all’indietro e si lascia ricadere sul divano.
– Ora vogliate scusarmi ma mi devo concentrare, sta arrivando Bob con le sue domande. Vediamo se mi frega anche oggi. Me ne deve ancora 360mila, quel farabutto!
Avete capito bene, qualche giorno fa il nostro stampatore Franco Glieca ci ha consegnato gli ultimi rullini sviluppati, è stato davvero emozionante, un lavoro svolto con professionalità durato più di due anni che ci ha regalato grandi soddisfazioni.
Il ringraziamento va a tutti coloro che si sono appassionati alla storia di queste pellicole e che con il loro fondamentale contributo hanno permesso, alla prima parte del progetto, di essere portata a termine.
Ora vi invitiamo, come sempre, a seguirci e a condividere con i vostri amici per scoprire le novità che abbiamo in mente per le fotografie di Randstad1969.
Per chi volesse contribuire sono sempre disponibili le stampe originali delle fotografie.